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24 lug 2015

DOKKEN: SULLE ORME DEL LEOPARDO SORDO





I 10 MIGLIORI ALBUM GLAM METAL

CAPITOLO 4: "TOOTH AND NAIL" (13/09/1984)


Nella vita, per emergere e avere successo, c’è sicuramente bisogno di talento, coraggio e inventiva. Ma da sole queste doti spesso non bastano. Bisogna che siano affiancate anche da una buona dose di fortuna, dall’”essere al posto giusto al momento giusto”.

La storia del successo di Donald Maynard Dokken, per tutti "Don", ne è una plastica dimostrazione. Il modo in cui sfondò nel mondo del metallo infatti è davvero una concatenazione di eventi e coincidenze quantomeno singolari.

A cura di Morningrise

Era il 1981, Don aveva già formato i Dokken, che però si filavano in pochi, anche perché era un gruppo di musicisti statunitensi ma di stanza in…Germania!  In uno dei tanti viaggi tra un paese e l’altro per concludere un accordo per la registrazione di un disco, Don fece amicizia prima con gli Accept e successivamente entrò in contatto con quella che allora era senza alcuna ombra di dubbio la più famosa hard rock band del mondo, gli Scorpions. Mentre gli Scorpioni di Hannover scrivevano e cominciavano a incidere quello che fu uno dei loro tanti capolavori, “Blackout” (che uscirà l’anno successivo), Klaus Meine ebbe problemi seri con le proprie corde vocali e dovette operarsi. Ed ecco che il Nostro si inserì in questa “falla” e cantò sulle demo dei vari brani in divenire. Meine dopo l’operazione completò la registrazione dei pezzi ma le parti registrate dal cantante californiano rimasero in molte tracce come backing vocals: un’esperienza non da poco da inserire nel proprio curriculum!

Ma le concatenazioni fortunose erano appena iniziate. Enumerandole: 1- gli Scorpions, dopo quella collaborazione diedero la possibilità ai Dokken di registrare negli studi del loro celebre produttore Dieter Dierks il debut album “Breakin’ the chains” ; 2- tornato negli Usa la major Elektra, con le referenze acquisite in Europa e notate le grandi doti vocali di Don su “Breakin’…” decise di mettere i Dokken sotto contratto e di rieditare l’album dandogli una diffusione anche americana (mentre prima la distribuzione era stata solo europea); 3- entrando in Elektra il gruppo venne preso sotto l’ala protettrice del produttore britannico Roy T. Baker, che all’epoca vi lavorava, uno dei più famosi e validi di sempre (collaborò proficuamente per tutti gli anni settanta coi Queen, tanto per intenderci…) 4- l’ottimo bassista della band, Juan Croucier, lasciò i Dokken perché corteggiato dai più rinomati Ratt. Ma quella che poteva essere un fatto negativo non si rivelò tale: infatti il bassista cubano venne rimpiazzato da Jeff Pilson, che fu decisivo per la scrittura di “Tooth and Nail”, contribuendo alla stesura di tutte le canzoni presenti sul disco, oltre ad essere un vero e proprio “animale da palcoscenico”, un trascinatore dal vivo.

Il risultato della somma di queste situazioni, in cui fortuna&bravura si incrociano ripetutamente, fu che ”Tooth and Nail” sbancò il mercato discografico, vendendo la bellezza di 3 mln di copie lanciando i Dokken nel gotha dell'hard rock. Un traguardo raggiunto appunto “con le unghie e con i denti”.

Ma rispetto ai tre dischi finora trattati nella nostra Retrospettiva sul Glam, questo ha un che di diverso: è decisamente un album di musica hard ‘n’ heavy
Certo presenta delle caratteristiche che lo accomunano alla Scena (le marcate linee melodiche, i cori trascinanti e ritornelli di facile presa), ma di primo acchito non sembrerebbero poter essere definiti "glam". 
E allora che c’azzeccano, si potrebbe chiedere??

Per rispondere alla domanda e per giustificare questa mia scelta, bisogna fare un piccolo passo indietro, al gennaio 1983 quando venne pubblicato il terzo full-lenght dei Def Leppard, “Pyromania”. Mi scuso in anticipo ma è decisivo aprire una parentesi sul grandissimo gruppo di Sheffield e della sua abnorme influenza su tutto l’hard’n’ heavy mondiale, statunitense in primis.

Facenti inizialmente parte a pieno titolo della NWOBHM grazie al loro fenomenale debut album “On through the night” (1980), a mio modo di vedere il capolavoro della loro intera carriera, dopo il discreto “High ‘n’ Dry”, Joe Elliott e soci virarono su stilemi più melodici e album-oriented, se vogliamo patinati, andando a comporre una musica palesemente vicina ai gusti americani (del resto già nel disco d’esordio era presente un profetico brano dal titolo “Hello America”). Il che li portò a sfornare il loro disco della consacrazione, “Pyromania” appunto, che segnò una definito passaggio dagli stilemi iniziali di stampo heavy a una musica come detto più orientata alla diffusione radiotelevisiva, e in definitiva popolare.
Quest’album, a mio parere buono ma nulla più (sicuramente inferiore, ad esempio, al loro successivo “Hysteria”) ebbe un effetto devastante negli States, vendette 10 (dieci) mln di copie diventando disco di platino e raggiunse la 2° posizione su Billboard. E i gruppi statunitensi che suonavano quel genere musicale non ne poterono essere che influenzati.

La risposta made in U.S.A. a “Pyromania” non si fece attendere: pochi mesi più tardi usciva infatti “Metal health” dei Quiet Riot, altro album decisivo nella storia del metallo anni ’80, non solo perché fu il primo album metal a raggiungere la prima posizione di Billboard (vendendo qualcosa come 6 mln di copie), ma perché può essere a tutti gli effetti considerato un “classico” dell’H.M. tout court, grazie a pezzi immortali come la title track, “Cum on feel the noize” e la conclusiva ballad “Thunderbird”, dedicata allo scomparso Randy Rhoads, che aveva suonato nei primi due dischi dei QR ed era, ahinoi, deceduto l’anno precedente in un incidente aereo; una perdita devastante per l’intero mondo del metallo (chiedere a Ozzy per avere conferma…). Ma i Quiet Riot non si demoralizzarono dalla tragedia che colpì il 25enne fenomeno delle sei corde e, arruolato il messicano Carlos Cavazo, diedero alle stampe questo splendido disco di puro hard’n’heavy.

Probabilmente sarebbe stato più corretto che ci fossero loro nella nostra lista. Ho preferito invece inserire i Dokken al posto dei QR non per un fatto prettamente musicale, ma perché Kewin DuBrow&co erano nell’approccio e nel look molto più vicini agli Iron Maiden degli esordi, molto più “metallari” e grezzi che glamour. Ai Quiet Riot in definitiva mancava un certo appeal di immagine, che invece Don e soci, sempre curati ed "eleganti" nell’aspetto, avevano.
I Dokken quindi possono essere presi come esempio onnicomprensivo di tutte quelle band che la critica inserì nell’unico calderone “hair” senza però essere strettamente “glam”. 
Se infatti immortaliamo la band losangeliana nel 1984 è evidente come curassero fortemente l’immagine, le pose, gli sguardi, la tipologia di indumenti. Certo non avevano quel trucco così marcato o quegli abiti così sgargianti di altre formazioni coeve, ma è altrettanto vero che agli occhi risaltavano subito le loro capigliature, iper-cotonate e mechesate e gli sguardi da homme fatale di Don (tutte caratteristiche di immagine che vennero esasperate nel successivo “Under lock and key”del 1985). E rispetto ai QR anche sulla musica una conseguenza tutto ciò l’aveva, in particolar modo emergeva uno stile raffinato, un hard rock quasi sempre misurato e rispondente a quei canoni AOR, a quell’heavy melodico che l’anno prima i Def Leppard avevano codificato in modo perentorio su “Pyromania”.

Se ho già accennato all’importanza rivestita da Pilson nell’economia del songwrting e nella riuscita complessiva del disco, è anche d’obbligo soffermarsi sul coautore di tutte le musiche dell’album, e cioè George Lynch, chitarrista di altissimo livello, facente parte di quella generazione d’oro di guitar hero che nacquero, sia in America che in Europa, tra la metà e la fine degli anni ’50 (Lukhater, Malmsteen, Satriani, Van Halen, lo stesso Rhoads). La sua presenza sarà decisiva per rendere ottimo un album che altrimenti sarebbe semplicemente più che buono. Anche nei pezzi che risulterebbero più semplici e/o non memorabili (“Heartless heart”, “Don’t close your eyes”, “Bullets to spare”) i fraseggi e i solos di Lynch donano una classe e un’eleganza decisiva per la qualità del brano e conseguentemente dell’intero platter.

Ma non vorrei che ci si facesse un’idea sbagliata del sound della band: quando c’è da picchiar duro i Nostri dimostrano di saperlo fare e bene come dimostrano la terremotante title track (top song di "TaN", splendido pezzo tirato con un rifferrama di prima qualità e la conclusiva “Turn on the action”, una song velocissima guidata dal chitarrismo sempre ispirato di Lynch e che risulterà uno dei pezzi migliori del disco.
In mezzo non mancano le chicche come l’ottima “Just Go Lucky”, dolce e potente allo stesso tempo e caratterizzata da un refrain trascinante; “Into the Fire”, introdotta da un inquietante arpeggio acustico che fa da preambolo all’esplosione di tutta la sua verve; e “When heaven comes down”, mid tempo oscuro che rimane tale anche nel chorus, cantato a piena voce da tutto il gruppo, un brano impreziosito ancora una volta nella sua parte centrale da uno splendido assolo di Lynch. 
I Dokken poi, come era usuale in quel periodo, non si fanno mancare la ballatona da classifica, quell’“Alone again” che mette in mostra tutta la dolcezza e l’estensione vocale di Don.

Nonostante quanto detto di positivo, a mio modo di vedere “Tooth and Nail” non è il capolavoro dei Dokken, che raggiungeranno l’apice artistico con il fenomenale, e molto più complesso, “Back for the attack” del 1987.

Ma, come accennato, è probabilmente il disco che rappresenta al meglio un certo trend che si viveva negli States a metà degli anni ’80, a volte parallelo e a volte intersecante il più generale movimento Glam, un disco che è al contempo punto di partenza per lo sviluppo artistico della band e summa di un certo modo di interpretare il connubio tra hard rock e heavy metal in chiave melodica e album oriented. Un’interpretazione che, come detto, arrivava dai britannici Def Leppard, ma che negli States ebbe la sua maturazione e culmine artistico.