"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

12 lug 2015

ISIS: DAL POST-HARDCORE AL POST-METAL




I MIGLIORI DIECI ALBUM DEL “NUOVO METAL”
3° CLASSIFICATO: “PANOPTICON”

Pelican, The Ocean, Rosetta, Buried Inside, Red Sparowes, Battle of Mice, A Storm of Light, Callisto... e la lista potrebbe andare ben oltre. Esteso, infatti, è il novero delle band e degli artisti che possiamo contemplare nel vasto calderone del post-metal. Troppo esteso, questo elenco, per noi che abbiamo il compito di individuare solo dieci titoli che rappresentino le nuove tendenze del Metal Odierno. Non è una forzatura, tuttavia, racchiudere tutte queste entità sotto la copertura di un'unica bandiera di rappresentanza: quella degli Isis.

Bisognerebbe però spendere prima due parole sugli svedesi Cult of Luna, che con gli Isis sostanzialmente se la sono sempre giocata alla pari. Se gli Isis si formavano nel 1997, i Cult of Luna lo facevano nel 1998. Quando gli Isis davano alle stampe lavori come “Celestial” (2000) ed Oceanic” (2002), i Cult of Luna rilasciavano l'omonimo debutto (2001) e “The Beyond” (2003). Una “sfida” a distanza, dunque, che ha rappresentato un formidabile botta-e-risposta fra le due band che prima di tutti seppero raccogliere l'eredità della formazione che sconvolse, sul finire degni anni novanta, la musica pesante: i Neurosis (i poveri Breach, che si sciolsero precocemente nel 2001, dopo gesta grandiose, non li possiamo più considerare ai fini delle nostre dissertazioni). Più saldamente ancorati alla dimensione hardcore (come da buona tradizione svedese) i Cult of Luna hanno saputo progredire costantemente, sviluppando un suono personale ed affinando, di album in album, la loro proposta: un post-hardcore che nel tempo ha saputo ingerire dosi maggiori di melodia e raggiungere traguardi invidiabili quanto a complessità concettuale, penetrazione sociologica e varietà stilistica (finendo per toccare i lidi del folk e dell’elettronica minimale). A conti fatti, la compagine di Umea ha sfornato solo ed esclusivamente capolavori e giunge senza fallo ed in inesorabile ascesa ai nostri giorni con un lavoro superlativo come “Vertikal” (uscito nel 2013).

Il destino degli americani Isis è stato diverso: la band si sciolse infatti nel 2010, ma nel corso della poco più che decennale esistenza, la formazione di Boston ha consegnato ai posteri cinque lavori, tutti significativi, nell'arco dei quali si è venuta a completare la transizione da post-hardcore a post-metal, di cui gli Isis sono a tutti gli effetti i padri. E' per questo che scegliamo loro, e non i pur ottimi Cult of Luna, quali degni rappresentanti del filone all'interno della nostra rassegna.

Generalmente il primo caso di post-metal viene fatto coincidere con “Oceanic”, loro secondo lavoro, nel quale la matrice neurosiana veniva arricchita con nuovi importanti elementi. I suoni erano ancora esplosivi, la voce strillata e di derivazione hardcore, le composizioni estese nel minutaggio e torrenziali nel loro incedere. Eppure tutto assumeva una fisionomia più composta, persino le barbe dei musicisti sembravano meglio pettinate e le camicie a quadri stirate. Più che altro iniziavano ad emergere quegli elementi distintivi che caratterizzeranno la genesi del post-metal, che diverrà genera a parte: momenti più rarefatti e distesi, dalla forte valenza emotiva e paesaggistica, precedevano e preparavano immani detonazioni, evocanti i crescendo tipici del post-rock strumentale dei Mogwai (ovviamente in una versione più pesante e catastrofica). Il seme fu dunque gettato: con l'album successivo il percorso volgerà al suo compimento.

Anno 2004: “Panopticon”. Gli Isis si ripresentano sul mercato discografico con trame strumentali sempre più raffinate e complesse in cui convivono pacificamente Neurosis, Tool (Justin Chancellor prestava il suo basso ad un brano), i citati Mogwai e persino gli Opeth, pionieri nel coniugare metal pesante e rock progressivo. Il risultato è un gioiello fra i più brillanti del firmamento del “Nuovo Metal”: per certi aspetti ne costituisce la migliore testimonianza, perché in esso vanno a confluire le più importanti tendenze che hanno caratterizzato gli anni zero.

Il sound di “Panopticon” è potente e trascinante come il post-hardcore dei Neurosis.

All'interno di queste mastodontiche architetture, brulica un'attività che invece segue le linee-guida definite dai Tool, presenti nei pattern chitarristici, nel drumming dinamico ed ossessivo di Aaron Harris.

Su queste basi si innesta il bel basso in evidenza di Jeff Caxide, che per approccio ricorda il basso arpeggiato di Simon Gallup (i Cure, del resto, sono indicati fra le influenze del musicista), conferendo al tutto inedite sfumature dark. E' chiaro, dunque, che la dimensione melodica acquisisce spazi crescenti, costruita sull'onda dirompente di ispirati arpeggi, preziosismi armonici, stratificazioni che si aggiungono progressivamente, l’ottimo lavoro, in definitiva, di chitarre e tastiere, spesso utilizzate, quest'ultime, in chiave ambientale. C'è da ricordare infatti che fra i cinque componenti campeggia un tastierista, Bryant Clifford Meyer, che aggiunge colori e sfumature ad una tavolozza già di per sé ricca.

Le chitarre di Michael Gallagher ed Aaron Turner, infine, conducono il gioco in perfetta sinergia, coprendo gli spazi con i chiaroscuri emozionali che sono tipici del post-rock, ma anche con trame che introducono un misurato tocco progressivo. Che si scelga una via o l'altra od entrambe (perché spesso le due dimensioni si rincorrono e compenetrano), l'obiettivo è il medesimo: generare quel climax emotivo, sospeso fra tensione e rilascio, che trova il suo orgasmo in sublimi eruzioni di metallo incandescente.

Giungiamo dunque alle note dolenti, anzi alla nota dolente, l'unica di un lavoro pressoché impeccabile: la voce di Aaron Turner. Se sulla dimensione del pulito guadagna spazi crescenti, fra l'altro con risultati passabili, sul fronte del growl proprio non ci siamo. Al di là che, per oscure ragioni (dato che la produzione è perfetta), la voce passa regolarmente in secondo piano rispetto alla musica, il suo gorgogliare ripetitivo e monocorde soffre il contrasto con una musica dinamica e ricca di sfumature. Probabilmente, lui che cantante non lo è stato mai, non aveva più voglia di strillare, trovandosi in estrema difficoltà un po' ovunque ed in particolare laddove la controparte musicale diveniva più elaborata.

Potevano esserci diversi modi per ovviare al problema: dal reclutare un altro cantante, al ritocco in studio delle parti vocali, o anche lasciare tutto strumentale e buonanotte (soluzione per altro sfiorata, visto che i passaggi cantati sono sporadici e marginali all’economia complessiva del suono). Ma non è il caso di crucciarsi oltremodo: il risultato è superlativo comunque, tanto che potremmo definire “Panopticon” l’album metal “più bello” degli anni zero. Esagero? Forse, eppure è difficile trovare un piatto così forte ed al tempo stesso preparato con cura. Laddove i maestri Neurosis regredivano a forme più scarne e primitive, finendo per sfiorare il cantautorato tout-court (genere essenziale per eccellenza), gli Isis progredivano ammassando suoni sempre meglio tagliati, stratificati, sfumati. Inventare, negli anni zero, non significa del resto coniare nuovi linguaggi (come accadeva ai tempi dell'heavy metal classico, del thrash o del black), bensì mescolare. E gli Isis mescolano bene, lo fanno per giunta non perdendo di vista quello che è l’obiettivo di ogni forma d’arte che si rispetti: dare emozioni. 

Si parla dunque di amori infranti, di lutti terribili, di fratture insanabili? Niente di tutto questo. Non vi poteva essere, invero, tema più algido per “Panopticon”, che è un concept il cui punto focale è il concetto di “prigionia”, concetto esplorato su più livelli: dal sistema carcerario definito nel 1791 dal filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham (da cui l’album prende il titolo), all'analisi sociale più ampia che viene effettuata tramite questa metafora. Il velato totalitarismo che si può nascondere dietro il paravento della democrazia è sicuramente il nocciolo della questione, e non è un caso che, nel corso del 2004 (anno di uscita dell’album), veniva da un lato rieletto George W. Bush (il guerrafondaio Bush, sentinella dell'occidente e dei patri confini, considerata l'ossessione che il suo programma ha riservato sui temi della sicurezza), dall'altro veniva lanciato Facebook (il dilagare dei social forum come forma di invisibile controllo sociale, altra sfumatura del tema principale).

Eppure “Panopticon” non è un album claustrofobico, labirintico, non intende tradurre gli argomenti trattati con una musica soffocante e disturbante. All’espressionismo non-sense od alle contundenti spigolosità di molte proposte musicale incaricate di farsi carico di un certo disagio generazionale, subentra un moto ondivago dove i brani sfumano l'uno nell'altro dolcemente: uno struggente romanticismo che ci consegna quel senso di vastità che era stato proprio di opere come “Celestial” ed “Oceanic”, fin dai titoli evocanti l’immensità della volta celeste e delle masse oceaniche. E sebbene “Panopticon” porti il nome di un sistema carcerario, le composizioni degli Isis continuano a definire spazi ampissimi, un dolore gigantesco grande quanto l’universo, profondo quanto l’animo umano: sono montagne imponenti, correnti impetuose, onde potenti, un grido che proviene direttamente dal cuore, urlato a squarciagola quello che ci descrivono le avvolgenti spire di questo post-hardcore che di ancestrale conserva un'emotività frustrata che è fuori dal tempo e dallo spazio, ma che nella forma calza le vesti eleganti e raffinate di un metal oramai post, non solo perché annette gli stilemi del post-rock, ma anche perché si pone come superamento/espansione del tipico modus operandi dell'heavy metal classico. Se carcere dev’essere, allora che lo sia microscopico, ripreso dall’alto, da incommensurabili distanze, come accade nella suggestiva copertina.

Panopticon” fu una vetta impossibile da superare, anche dagli stessi Isis. I due lavori licenziati successivamente, (che precederanno l'inevitabile scioglimento della band, come se l'implosione dell'organico fosse l'unica via d'uscita possibile per la troppa tensione accumulata), non saranno all'altezza di questo capolavoro, pur conservando l'elevata caratura artistica che contraddistinguerà fino alla fine la formazione di Boston. Il lascito, tuttavia, sarà enorme ed importantissimo per gli sviluppi del metal del terzo millennio. Basta tornare alla lista riportata all'inizio...