"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

21 feb 2016

1991 – 2016: VENTICINQUE ANNI DI MORTE - I MIGLIORI DIECI ALBUM DEATH METAL USCITI NEL 1991



Il 1991 è stato un anno significativo nella storia dell’heavy metal. Dopo i fasti degli anni ottanta, all’inizio della decade novantiana l’impianto iniziò a scricchiolare. Il 1991 fu l’anno in cui videro la luce “Nevermind” e “Ten”, l’anno in cui Nirvana e Pearl Jam si ergevano come i capofila di un nuovo modo di intendere il rock: un rock che rifuggiva i vecchi cliché per addentrarsi a fondo nell’interiorità affranta di una generazione di giovani disorientati che non avevano i mezzi e le certezze per reagire ad un mondo che stava cambiando e che li stava annientando.

Eppure il 1991 è stato un anno estremamente fecondo per il metal, che, nonostante questi rivolgimenti, stava vivendo al suo interno delle rivoluzioni che palesavano una rigogliosa vitalità: una vitalità  che contraddiceva chi sosteneva che il metal si sarebbe presto estinto in quanto appartenente ad un mondo obsoleto e radicato nel passato.

Un anno cruciale, il 1991, nel quale il metal moriva (almeno nella sua accezione più classica), ma al tempo stesso mutava. Un anno che, non a caso, abbiamo tirato in ballo nel post in cui sostenevamo che (oggi, e non venticinque anni fa!) il metal è morto.

In quel post abbiamo elencato delle opere-simbolo date alle stampe nel 1991: i Savatage sfornavano il capolavoro “Streets: a Rock Opera”, forse vintage nell’approccio, ma incommensurabile nella sua capacità di dare emozioni, vere emozioni (ascoltatevi “Believe” e poi mi dite!). I Fates Warning con “Parallels” proseguivano il cammino intrapreso con “No Exit” (1988) e “Perfect Simmetry” (1989), mettendo a punto quel filone, il prog metal, che a partire dall’anno successivo avrebbe conosciuto la notorietà grazie ad “Images and Words” dei Dream Theater. Dall’Inghilterra Paradise Lost e Cathedral aggiornavano i canoni del doom, i primi aprendo di fatto la stagione del gothic metal con “Gothic”, i secondi slabbrando i confini allora conosciuti del metal con quel capolavoro di pesantezza e mestizia che è “Forest of Equilibrium”. I Sepultura, nel frattempo, dalle “foreste dell’Amazzonia” fornivano il loro prezioso contributo con “Arise”, esprimendo una maturazione, a livello tecnico, compositivo e concettuale, che nessun altro aveva mostrato in campo estremo.

In tutto questo imperversavano per le emittenti musicali i videoclip di Metallica e Guns n’Roses, che se ne uscivano rispettivamente con il “Black Album” e con i due tomi di “Use your Illusion”: a  dimostrazione che il metal, nonostante tutto, godeva ancora di una grande popolarità anche a livello di mainstream. Un anno speciale il 1991, che si merita di essere celebrato, a maggior ragione adesso, visto che nel 2016 ricade il suo venticinquennale.

Metal Mirror non poteva dunque esimersi dal partecipare a questi festeggiamenti. Ma lo fa a modo suo, andando a rovistare nel torbido, andando a fissare con la lente di ingrandimento un ambito specifico: il death metal (che peraltro abbiamo già avuto modo di trattare alla nostra maniera - si veda qui).

I dieci migliori album death metal usciti nel 1991: potrà sembrare una esagerazione, ma non lo è. Abbiamo avuto persino l’imbarazzo della scelta e alla fine è stato necessario scartare gente di grande valore. Qualche esempio per rendere l’idea: Suffocation, Unleashed, Grave, Dismember, Master, Malevolent Creation, Asphyx, tutte band che nell’anno 1991 o debuttavano o consegnavano alla storia del genere una pietra miliare.

E così i Suffocation con “Effigy of Forgotten” inauguravano il brutal (anche se a noi piace ricordarli per il masterpiece Pierced from Within”, del 1995). Mentre Unleashed, Grave e Dismember rinvigorivano la scena svedese, i primi con i trottanti umori “vichingheschi” di “Where No Life Dwells” (anticipando di anni gli Amon Amarth), i secondi con il solido “Into the Grave” e i terzi con “Like an Ever Flowing Stream”, testa a testa con i rivali Entombed nel dare forma al death metal di marca svedese. Rispondevano dall’America i Master di Paul Speckmann (il Lemmy del death!) e i grandissimi Malevolent Creation, che rilasciavano i rispettivi capolavori, “On the Seventh Day God Created…Master” e “The Ten Commandments”. Senza dimenticare il contributo degli olandesi Asphyx, forti dell’ugola agonizzante di Martin Van Drunen (ex Pestilence) e di un approccio tutto loro volto ad innestare nel loro death putrefatto forti dosi di doom.  

Vi rendete conto? Se questi sono gli “scarti”, figuratevi la caratura di coloro che invece sono riusciti a piazzarsi nelle prime dieci posizioni! Ma la nostra selezione è stata di pancia: noi che quel periodo l’abbiamo vissuto, noi che non cediamo a dietrologie, ci siamo mossi d’istinto, anche con dolore ed abbiamo detto “tu fuori”, “tu dentro”. In base a cosa? Probabilmente in base al carisma.

Il carisma nel death metal??? Ebbene si, signori miei. Il death metal non sarebbe altrimenti stato in grado di svilupparsi come genere a sé stante se non vi fossero state alla sua base delle vigorose energie creative. Si sa, a livello stilistico il grosso l’avevano già fatto gli Slayer con “Hell Awaits” e “Reign in Blood”, album che potrebbero definirsi tranquillamente death metal solo se, al posto degli urlacci sguaiati di Araya, vi fosse stato un cantato gutturale. Il resto lo fecero band come Kreator, Celtic Frost e Possessed, quest’ultimi il vero anello di congiunzione fra thrash metal e death metal (il celeberrimo “Seven Churches” si concludeva non a caso con un brano intitolato “Death Metal”). Ci piace però sostenere che il genere vero e proprio è nato ufficialmente con “Scream Bloody Gore” dei Death, anno 1987. Growl terrificanti, suoni caotici ed iperdistorti, velocità forsennate, tematiche macabre: è vero, il death metal nasceva come un’estremizzazione del thrash metal, ma a fargli da ostetrica troviamo un signore come Chuck Schuldiner, fra i più grandi artisti dell’heavy metal tutto.

Dotato di quella serietà e di quel rigore che gli hanno permesso negli anni di migliorarsi continuamente, Schuldiner era un musicista preparato, un compositore fantasioso ed un intelligente paroliere, a dimostrazione che per fare death metal non bastava urlare e picchiare come degli ossessi. La violenza degli Slayer, il dinamismo di un album come “Pleasure to Kill” dei Kreator, le vocalità efferate di Jeff Becerra dei Possessed (inventore del growl) furono le pietre angolari su cui un giovane Schuldiner costruì il suo cammino. Chissà quante band di adolescenti incazzati, all’epoca, saranno state in grado di fare “casino” quanto i Death. Ma furono i Death a pubblicare prima “Scream Bloody Gore” e poi “Leprosy”, a scrivere a chiare lettere (lettere sanguinanti) cosa fosse il death metal. Solo chi fu all’altezza della sfida seppe emergere e coloro che sopravvissero ci riuscirono non solo perché erano musicisti preparati (ed in certi casi tecnicamente superiori persino a certe band dedite all’heavy metal classico), ma anche perché avevano del carisma: un fottuto modo di distinguersi dagli altri. E credetemi, signori miei, non è facile distinguersi quanto tutti si canta con il growl, quando tutti si pesta come degli assassini e ci si ammanta di distorsioni furibonde.

Distinguersi nel caos e nel rigore di una metodologia che impegna energie fisiche e mentali, tecnica e visione del mondo, inesorabilmente verso la brutalità: forse questo è il tema principe nel death metal. Raffinarsi per fare più male, per essere più violenti, per reggere di più. Non è punk questo, non ci si limita a canzoni di un minuto e mezzo e senza assolo. Il death metal è un genere serio, rigoroso, proprio perché non ha molte possibilità di espressione e quindi si deve ingegnare per risultare credibile con margini di movimento veramente angusti.

Oggi il death-metal esiste ancora, ma non presenta grosse differenze rispetto a venticinque anni fa. Eccettuate certe formazioni che hanno saputo entrare in contatto con sonorità post-metal (mi vengono in mente gli Ulcerate e i Portal), non sono emersi in anni recenti artisti che abbiano saputo, o abbiano voluto, rivoluzionare il genere. Il death metal, i suoi picchi sperimentali li ha toccati nel 1993, con l’uscita di opere come “Focus” dei Cyinc, “Spheres” dei Pestilence ed “Elements” degli Atheist, ensemble prodigiosi che sapevano far flirtare la musica estrema con il jazz e la fusion (mica cazzi). Nel medesimo periodo, dalla Svezia si aprivano un varco i pionieri del cosiddetto melodic death metal, altresì detto Gothemburg Sound  (sempre nel 1993 usciva “Skydancer” dei Dark Tranquillity” e nel 1994 “Lunar Strain” degli In Flames, dopo che gli At The Gates, con “The Red in the Sky is Ours”, del 1992, avevano dato il là all’intero movimento): sperimentazioni che presto avrebbero portato il death metal verso altre declinazioni, molto distanti da quella forma “classica” che invece intendiamo trattare.

La dimensione temporale in cui il death metal si è originato, sviluppato ed accartocciato in se stesso è stata una parabola di sei/sette anni appena: un lasso di tempo brevissimo se si pensa che in esso hanno avuto i natali tante formazioni storiche la cui impronta sopravvive ancora oggi stampata sulle T-shirt di tanti metallari che amano “indossare” lo spirito autentico del metal.

E proprio questo spirito autentico si respirava nell’anno 1991: un anno che fotografava il death metal a metà circa del suo percorso evolutivo. Un death metal che si sviluppava prodigiosamente, lasciandosi alle spalle le ingenuità delle origini e guardando ostinatamente verso nuove forme di espressione, riannettendo talvolta proprio quegli elementi (la melodia, ad esempio) che erano stati buttati a mare nel corso del processo di definizione stilistica. E Metal Mirror, con l’approccio che lo contraddistingue, è disceso negli Inferi di quel laboratorio per riemergere con nuove Verità in mano. Verità forse inutili, perché a nessuno interessa l’apparato concettuale e profondo che sta dietro all’impalcatura del death metal (come a nessuno interessa la drammaturgia che sta dietro al cinema porno), perché tutti vogliono la violenza dal death metal, come tutti vogliono l’esplicitazione dell’atto sessuale nel porno e non una buona sceneggiatura.

Per noi quelle Verità non sono inutili, perché noi crediamo nel death metal, e riteniamo che in esso abbiano trovato spazio artisti fra i più intelligenti della musica metal. Quel death metal che, contrariamente a molte altre estrinsecazioni dell’Estremo, ha saputo ospitare anche due bestie rare, l’ironia e l’autoironia. Un death metal maturo, intelligente, carismatico: ecco quello che vediamo attraverso la nostra lente di ingrandimento.

Questa la ratio, dunque, che ci ha guidati nel Mar Morto del Metallo della Morte, mentre la vera novità metodologica è l’idea di scrivere ad otto mani la classifica, coinvolgendo l’intera redazione nell’impresa. Ognuno con la sua sensibilità, con le sue esperienze, ci racconterà un pezzo di storia del death  metal. Ma prima di aprire le danze, ci concediamo una piccola anteprima in compagnia di una band che, se proprio non brilla per carisma, e che anzi potremmo definire come fautrice di un death metal involuto, ci aiuta ad introdurre il tema