"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

22 feb 2016

DIECI CANZONI (PIU' UNA) PER CAPIRE DANZIG (parte prima)



Glenn Allen Anzalone, classe 1955 (sessant’anni tondi tondi festeggiati lo scorso giugno – ma dov’era Metal Mirror??), in arte Danzig: un personaggio indubbiamente controverso. Idolatrato, mitizzato, ma al tempo stesso deriso, sbeffeggiato per i suoi risibili eccessi, per le sue pose caricaturali, a tratti ridicole. Glenn Danzig, con il suo background culturale a base di culturismo, fumetti horror, cinema di serie Z, suggestioni porno/fetish e sanguinolento rock'n'roll, si è in verità dimostrato un originale interprete del verbo metal, sebbene la sua corpulenta figura rimanga per molti ancora legata all’universo punk, avendo egli prestato la sua ugola nei dischi storici dei Misfits.

Un’esperienza breve, quella in seno ai Misfts, ma che ha lasciato dietro di sé almeno due capolavori (“Walk Among Us” del 1982 e “Earth A.D. del 1983) ed una manciata di pezzi che faranno la storia del genere (brani  immortali come “She” e “Halloween”, raccolti poi nell’ottimo “Legacy of Brutality”). Con la sua voce da Elvis indiavolato, il suo fisico da palestrato e le capigliature più improbabili, Danzig si impose come il frontman carismatico di una band originale che, per le tematiche trattate e l’immaginario adottato, fu catalogata come horror-punk. Poi, nel 1983, la decisione di lasciare:

Ho dato molto al punk, cambio genere”.

E così fu. I Samhain avrebbero costituito, in forma embrionale, i primi vagiti della sua carriera solista. Album come “Initium” (1984) e “November-Coming-Fire” (1986) declinavano l’approccio ancora scarnamente punk in un’ottica più pesante ed oscura (ma non ancora propriamente metal). Alla fine il cantante decise di rompere gli indugi e consacrarsi definitivamente al verbo del rock, reinventandosi metallaro delle tenebre. La sua band avrebbe portato il suo cognome d’arte, Danzig, ed è proprio di questa fase che andremo oggi a parlare.

La nostra non sarà una semplice cronistoria, ma una libera dissertazione sull’universo musicale di Danzig tramite dieci brani che abbiamo selezionato deliberatamente dai primi quattro album della band. “Danzig” (1988), “Danzig II: Lucifuge” (1990), “Danzig III: How the Gods Kill” (1992) e “Danzig 4” (1994) possono infatti essere considerati come un blocco a parte nella carriera del Nostro. Anzitutto perché vi stava dietro la stessa formazione. Oltre a Danzig al microfono, trovavamo Eerie Von al basso, John Christ alla chitarra e Chuck Biscuits alla batteria: non dei virtuosi, ma dei musicisti onesti, capaci di erigere quel sound grezzo ed efficace in cui risaltava la magnetica voce del cantante. La loro stessa conformazione fisica rispecchiava questo stato di cose: all’altezza di “How the Gods Kill” i tre iniziarono a somigliarsi in maniera preoccupante (capello lungo liscio scuro e barba, tutti nero-vestiti), facendo risaltare ulteriormente la figura burina del leader, mascelloni glabri à la Ridge Forrester e capello fonato in stile Renato Zero. Ma non fu solo una questione di affiatamento della squadra, perché (e lo diciamo con il dolore dei fan traditi) a partire dall’infausto quinto album, “Danzig 5: Blackacidevil”, il flusso magico si interromperà per sempre. A dirla come si deve: sarà una vera tragedia.

Ma lasciamo perdere quell’orribile esperimento in cui il Nostro decise malauguratamente di darsi all’industrial: un lavoro abbietto ed inqualificabile che non temo di definire il più brutto in assoluto della storia del rock e dintorni. Lasciamolo perdere quell'aborto maledetto, in cui non si salvava nulla (ma proprio nulla!): sarebbe come sparare sulla Croce Rossa, un inciampo del resto si perdona a tutti. Il vero problema fu che i lavori rilasciati successivamente, chiamati a rinverdire i vecchi fasti con un affrettato recupero delle sonorità hard-rock/metal (in un contesto tuttavia oramai compromesso in cui sopravvivevano certi umori industrial rock à la Marylin Manson), relegarono il Nostro sotto le volte senza speranza di una triste vecchiaia fatta di lavori poco ispirati e via via sempre meno capaci di calamitare l’entusiasmo, persino del suo stesso pubblico.

Pubblico…ma Danzig ha mai avuto un pubblico? Nel suo caso è più lecito parlare di una confusa “popolazione” di ascoltatori isolati, individui con background diversi, spesso nerd che non resistono al fascino perverso del trash o del comico involontario; atomi con orecchie, in definitiva, che venivano attratti da quello strano e fiero rock dalle inedite tinte dark. Troppo cafone per i rocker, troppo floscio per i cultori del metallo, Glenn Danzig non è mai riuscito ad andare oltre lo status di personaggio di culto. Se poi si pensa che la sua scesa in campo come solista avvenne in anni in cui il rock nella sua accezione classica stava decadendo e nel contempo si stava preparando il terreno per il modello culturale del ragazzuolo sensibile, depresso ed incasinato, che poi esploderà definitivamente nei primi anni novanta con l'avvento del grunge, le ragioni dello scarso successo ci sono finalmente chiare. Quando manca il target di riferimento, del resto, non c'è niente da fare, fin tanto che a poco o nulla è servita la pubblicità gratuita da parte di gente illustre come i Metallica, da sempre ammiratori di questo piccolo-grande artigiano della musica.

Eppure, fin dai tempi dell'horror punk dei Misfits, a seguire con il death-rock dei misconosciuti Samhain, e perfino con l'infelice esperimento "Black Aria" (trascurabile parentesi di musica gotico-sinfonica, che poi avrà anche un seguito, “Black Aria II”, in anni recenti), nell'arzigogolata carriera del buon Glenn è rinvenibile un filo rosso, o meglio nero, che palesa una coerenza d'intenti, di temi e di attitudine che ne fanno senz'altro un artista strutturato e dalla forte e ben definita personalità. Un istrione oscuro e visionario, questo Danzig, sempre e comunque sopra le righe e capace di tingere di nero anche il rock'n'roll più scanzonato.

Ma perché dieci brani più uno? Perché prima di partire con la nostra breve rassegna, vorremmo introdurre il tema con un episodio che abbiamo pescato al di fuori del cerchio magico dei primi quattro album. Il brano fuori concorso da noi scelto per aprire le danze proviene dal mediocre ma dignitoso “Danzig 6:66: Satan’s Child”, l’album della “mezza rinascita”. Questo brano porta il nome di “Thirteen” e devo dire che è riuscito a stupirmi per ben tre volte.

La prima di queste è ovviamente quando ascoltai l'album stesso, il quale, sebbene nel complesso non fosse altro che uno scialbo revival, sapeva comunque regalare in coda un gran bel coup de théatre: quella perla nera, “Thirteen”, che, sulle movenze di un blues derelitto, celebrava ancora una volta il carisma vocale di Danzig, il suo inconfondibile lamento baritonale a metà strada fra un luciferino Elvis Presley ed il Jim Morrison poeta maledetto.

M’imbattei nel brano una seconda volta (diversi anni dopo) quando acquistai “American Recordings” di Johnny Cash, LP che conteneva diverse cover, fra cui una firmata da Glenn Danzig. Ma attenzione: l’album di Cash usciva ben cinque anni prima rispetto a “Satan’s Child”, suggerendoci che il pezzo fu originariamente concepito e scritto da Danzig proprio per l'Uomo in Nero (ci fu sicuramente lo zampino di quel volpone di Rick Rubin, dato che la sua Def American promuoveva all’epoca anche i lavori di Danzig), e poi recuperato in un secondo momento (forse perché a corto di idee). Ottima la rivisitazione folk/country di “Thirteen” fatta da Cash, ma continuo a preferire senza problemi la versione elettrica di Danzig.

“Thirteen” ebbe modo di stupirmi un’altra volta qualche anno dopo, ritrovandomela baldanzosamente spalmata sui titoli di testa del film comico “Una notte da leoni”, grandissimo successo ai botteghini. Stranezze della vita, ma è sempre una gioia imbattersi in Danzig quando meno te lo aspetti. 

Fatta questa premessa, che ben ci spiega il personaggio, perennemente sospeso fra cultura trash e arte vera, diamo dunque il via alla nostra classifica!