"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

23 mar 2016

DIECI ALBUM (PIÙ UNO) PER CAPIRE PAUL CHAIN (parte terza)




Si conclude il nostro viaggio nell'intrigante universo di Paul Chain. Dopo aver visto le cinque posizioni dalla decima alla sesta, andiamo a scoprire quelli che secondo noi sono i migliori album in assoluto rilasciati dall’artista pesarese nella sua lunga storia...

5) “Park of Reason” (2002)
Park of Reason” è un album vasto, gigantesco, immenso: non vi sono altri modi per definirlo. Nella lunghezza, nei suoni, nella sua penetrazione metafisica “Park of Reason” è un album pantagruelico. Ultimo lascito di Paul Chain in ambito metal (l’anno successivo egli deciderà di abbandonare il suo pseudonimo per abbracciare un nuovo paradigma artistico estraneo persino al rock), è una sorta di testamento spirituale. Suoni grassi e spossanti, chitarre grevi, accordi bassi e prolungati che si alternano alle consuete riflessioni ambientali. E' come se Paul Chain costruisse il suo “Parco della Ragione” nel bel mezzo della Foresta dell'Equilibrio. Un monumentale saggio di doom metafisico addolcito dai soliti organi celestiali e dalle splendide costruzioni soliste della chitarra: improvvise epifanie di raffinata e struggente poesia che dal sound melmoso e rossastro (che sia l’antico viola scolorito?) emergono aprendo viste su mondi misteriosi e bellissimi. Uno scenario fantastico.

Dal singolo “Solitude Man”, al tributo ai Saint Vitus con la riproposizione di “Let the End Begin” (ottima), “Park of Reason” si muove con la grazia di un titano colossale, riservandoci un geniale colpo di coda (biforcuta): due brani (“Logical Slow Evolution” nella cassa sinistra e “…In Time” nella cassa destra) sparati in contemporanea a creare intriganti disarmonie ed aritmie. Nonché a decretare un minutaggio record di novanta minuti!      

4) “Detaching From Satan” (1984)
Eccoci all’esordio con i Violet Theatre, progetto musical-teatrale avviato a seguito della fuoriuscita dai Death SS. La volontà di prendere distanza, almeno concettualmente, dall'esperienza precedente è netta e tranciante: Chain intende anzitutto distaccarsi da quel Satanismo che adesso vede come inferiore e futile ideologia. Il Teatro Viola, invece, poggerà i propri fondamenti sull’antica filosofia della Morte o Magia Viola di cui l'autore si dichiara cultore. Rispetto a tante altre realtà che nel metal “giocano” con la morte, Chain affronta il tema “a mani nude”, con inconsueta crudezza, cosa che si evince dalla schietta copertina che ritrae l'artista stesso in uno scarno bianco e nero in una posa a metà strada fra un defunto ed un oscuro sacerdote. 

Chain ha il fuoco nelle vene e tutti e quattro i pezzi di questo mitico EP,  motum primum dell’intero suo viaggio artistico, sono a dir poco memorabili. La musica è morbosa e violenta. Quanto a malvagità, tenendo conto degli standard dell'epoca (correva l'anno 1984), la musica ivi proposta si porta su un fronte decisamente avanzato di efferatezza. Il dark sound dell’heavy metal di Chain trae ovviamente origine dalle atmosfere orrorifiche inscenate dalla sua vecchia band, ma i Violet Theatre riescono a suonare ancora più oscuri, a partire dalla voce malata di Chain, acida e sgraziata più che mai. Tutti i brani sono pervasi da una furia hendrixiana, un chitarrismo in continua mutazione (fra riff taglienti e marciume arpeggiato) supportato diligentemente da una sezione ritmica micidiale (si guardi alla malefica “Voyage to Hell”, sorta di “Foxy Lady” delle tenebre). Di sabbathiano c’è la pesantezza delle chitarre, anche se solo nell’ultima traccia (impreziosita dall’interpretazione teatrale di Gilas) si può parlare di vere e proprie atmosfere doomeggianti. Da avere, senza se e senza ma!   

3) “Violet Art of Improvisation” (1989)
Rilasciato nel 1989, ma contenente tracce registrate fra il 1981 e il 1986, “Violet Art of Improvisation” è il manifesto programmatico del Paul Chain solista. Sospeso fra metal e sperimentazione, l'opera è un doppio album che mostra i due volti complementari di Paul Chain. Da un lato il Chain elettrico, ben introdotto dal primo tomo, con in prima fila una fenomenale “Tetri Teschi in Luce Viola”, ossia mezzora di divagazioni doom/psichedeliche aperta da un maestoso organo da chiesa molto molto vintage: suoni ruvidi e presa diretta, riff devastanti ed effetti riverberati per un viaggio tremendo che è destinato a rimanere uno dei saggi più rappresentativi dell'arte cateniana.

L’altra faccia della medaglia è invece rappresentata dalle sei belle tracce del secondo tomo, le quali ci consegnano un Chain meditabondo in una dimensione incentrata sui sintetizzatori e non più sulla chitarra: atmosfere pinkfloydiane, un flusso sinusoidale che attinge dalla migliore musica cosmica come dall’ambient. Nenie dal forte potere ipnotico, organi ondeggianti, un’elettronica soffusa che sa fondere psichedelia ed avanguardia (si guardi alla manipolazione dei nastri e delle voci). Sottendendo una ricerca che, penetrando nell’inconscio, procede sotterranea verso l’Ignoto. Ammaliante.

2) “In the Darkness” (1986)
Un titolo un programma. Dopo due anni dalla fondazione dei Violet Theatre ed un EP strabiliante, Chain dà alle stampe il primo full-lengh della sua nuova band. Al di là che Chain stava sviluppando un suono che in Italia nessuno ascoltava né tanto meno suonava, e che per questa sua ricerca egli verrà seguito con interesse soprattutto dall'estero, la demarcazione fra questi suoni e quelli delle altre heavy metal band attive nel periodo è una questione di umori, di atmosfera, di profondità extra-musicale. La differenza che correva, per esempio, fra i ben più noti Mercyful Fate e Paul Chain è la stessa che può sussistere fra un regista come l'inglese Roger Corman (avete presente la serie di pellicole dedicate ai Racconti del Terrore di Edgar Alla Poe?) e l'italiano Mario Bava: una questione di morbosità che misura la distanza fra degli horror ben fatti da un regista pragmatico che ben conosce il suo mestiere, e gli insani e deraglianti capolavori di un genio visionario quale è il nostro Bava. Con in più quell'approccio artigianale che contraddistingue, tanto per rimanere in tema, molti cineasti italiani di culto, come il primo Argento e Lucio Fulci.

Suoni neri come la pece, registrazione rozza ma efficace, una solida sezione ritmica a supporto di una chitarra irrequieta che non trova pace, fra riff al vetriolo ed arpeggi putrescenti. Con sopra le solite prodezze soliste e le voci sconcertanti dello stesso Chain e di Sanctis Ghoram (che figurerà come vocalist principale in ben tre pezzi). Della partita fanno parte due classici dei Death SS che ritroveremo successivamente in “Black Mass” (uscito nel 1989): “Welcome to my Hell” e “In the Darkness”.    

1) “Alkahest” (1995)
Alkahest” è il capolavoro formale di Paul Chain, la summa della sua arte confezionata in una veste professionale. Nel doom esistono molti album “definitivi” (in linea di principio ogni album doom è un album definitivo), ma se dovessi sceglierne uno, al massimo due, indicherei sicuramente “Forest of Equilibrium” dei Cathedral e proprio questo lavoro di Paul Chain.

Doom classico, magico, elegante, arricchito da suggestioni arcaiche ed esoteriche, ma al tempo stesso un doom solido, concreto, asciutto: riff poderosi, assoli superlativi, una ricerca melodica che procede a braccetto con la potenza del metallo. Tanto per aggiungere gloria alla gloria, nel secondo lato le composizioni sono marchiate a fuoco dalla interpretazione teatrale del supremo Lee Dorrian: un connubio che ci consegna il miglior doom possibile (visto che la voce incerta di Chain è rimasta nel tempo il punto debole della sua proposta). Il poker di brani posti in chiusura è da manuale: “Voyage to Hell” (ripescata direttamente da “Detaching from Satan”), “Static End” (torbida discesa negli inferi fra rantoli sgraziati, un biblico recitato e maestose tastiere), “Lake  Without Water” (onirica ballata con un Dorrian insolitamente vellutato) e “Sepulchral Life” (la doom-metal-song per eccellenza: dieci minuti di sfinimento chitarristico e vocale, con tanto di accelerazione centrale e successiva ricaduta negli abissi) sono semplicemente quanto di meglio il genere possa offrire. Fate voi le vostre valutazioni.

P.s. Paul Chain ci tiene a precisare di essere uno strenue sostenitore del pacifismo e che le SS del monicker Death SS non hanno niente a che fare con Nazismo e Terzo Reich. Tiè!

Lunga vita al Catena.

Playlist essenziale:
1) “Terror” (Death SS, “The Story of Death SS 1977 – 1984”)
2) “Horrible Eyes” (Death SS, “The Story of Death SS 1977 – 1984”)
3) “Voyage to Hell” (Paul Chain Violet Theater, “Detaching From Satan”, 1984)
4) “Welcome to my Hell” (Paul Chain Violet Theater , “...In the Darkness”, 1986)
5) “Our Solitude (Birth, Life, Death)” (Paul Chain Violet Theater, “Opera 4th”, 1987)
6) “Tetri Teschi in Luce Viola” (Paul Chain, “Violet Art of Improvisation”, 1989)
7) “Whited Sepulchres” (Paul Chain, “Whited Sepulchres”, 1991)
8) “Underground Life” (Steve Sylvester, “Free Man”, 1993)
9) “Sepulchral Life” (Paul Chain, “Alkahest”, 1995)
10) “Strange Philosophy of Life” (Paul Chain – The Improvisor, “Master of All Times”, 2001)