"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

30 lug 2016

DIECI ALBUM (PIU' UNO) PER CAPIRE IL FOLK APOCALITTICO: DEATH IN JUNE, "BUT, WHAT ENDS WHEN THE SYMBOLS SHATTER?"

 


Terza puntata: Death in June

Nell'anteprima della nostra rassegna abbiamo evidenziato la centralità dei Death in June riguardo alla nascita ed alla definizione stilistica del folk apocalittico. Correva l'anno 1987 ed essi rilasciavano il leggendario "Brown Book", niente meno che l'opera che poi sarebbe divenuta il manifesto dell'intero genere. Ma Douglas Pearce, oramai solo alla guida del progetto, non si sarebbe limitato a gettare le basi, le fondamenta su cui l'intero edificio avrebbe poggiato: egli nondimeno avrebbe contribuito a sviluppare il genere, perfezionandolo ulteriormente, aggiungendo nuovi elementi con una serie di album memorabili, fra cui spicca quello che va ad incarnare, in una perfezione idealtipica, l'essenza stessa dell'intero movimento.

Parliamo oggi di "But, What Ends When the Symbols Shatter?", anno 1992.

Per cogliere la complessità dell'opera, è necessario tuttavia fare un passo indietro: nel 1989 usciva in vinile (in formato cd l'anno successivo) un altro significativo lavoro dei Death in June, "The Wall of Sacrifice": un'opera controversa che tutt'oggi costituisce uno dei passaggi più ostici dell'epopea artistica di Pearce. Esso è una creatura abnorme, frutto perverso di una materia emotiva incandescente e difficilmente gestibile: energie irruenti e cozzanti che andavano a comporre un puzzle in cui tutte le tessere non sembravano combaciare. Un saggio sull'incomunicabilità, infine, che estremizzava quelle che erano state le componenti fondanti del Death in June sound fino a quel momento.  

Da un lato le mostruose suite industriali. La title-track, sedici minuti di voci farneticanti e rumori molesti caricati e ripetuti in loop, era un incubo sonoro che sembrava mimare l'inquieto ribollire dell'inconscio: un quarto d'ora difficile da buttare giù, tanto più che era posto in apertura, come a voler scoraggiare l'incauto ascoltatore. Ma nemmeno i nove minuti di "The Death is a Drummer" (posta in chiusura) scherzavano: ambient marziale che ribolliva di presagi oscuri, fra fanfare e tamburi militari. Due tracce, questa e la title-track, che costituivano un "muro impenetrabile" chiamato ad isolare (e forse proteggere) la psiche in frantumi di Pearce, che all'epoca viveva una grave crisi depressiva.

Una cruda intimità che emergeva dimessa in ballate folk come "Giddy Giddy Carousel" (quasi una filastrocca, beffarda con il suo ritornello orecchiabile doppiato dalla voce da "fatina" di Rose McDowall), "Fall Apart" (letteralmente: "cadere a pezzi", nei suoi due minuti e ventisei secondi, probabilmente il momento più intenso dell'intera epopea pearciana) e "In Sacrilege" (doloroso saggio di un inconfortabile mal di vivere, che vedeva dietro al microfono il collega David Tibet dei Current 93). Un'opera difficile, impenetrabile, che in questi forti contrasti esplicitava le fratture e le lacerazioni di un Pearce sprofondato in un baratro psichico apparentemente senza ritorno.

Ad un passo dallo scioglimento dei Death in June e dal suicidio, Pearce fu tuttavia in grado, per sua e nostra fortuna, di imboccare la via maestra per la rinascita spirituale ed artistica attraverso un percorso di rigenerazione/purificazione personale consumato fra Europa ed Australia (che in seguito sarebbe divenuta la sua base operativa da esule).

Frutto del girovagare per tre anni fra Londra, Parigi, Roma, Sidney ed Adelaide, "But, What Ends When the Symbols Shatter?" rispecchiava lo status di apolide del suo autore, che oramai guardava il mondo in maniera distaccata, quasi ci parlasse da un'altra dimensione, da un'epoca futura dalla quale si riversano meste profezie sulla fine del mondo. I Death in June continuavano ad essere l'espressione del travaglio spirituale del suo leader, che tuttavia mostrava un atteggiamento diverso: diverso da sé medesimo e diverso dal resto della scena "oscura", che spesso fatica ad emanciparsi da tematiche strettamente adolescenziali. Si riaffacciava sul mercato discografico con un album “strano”, ambiguo, mite all'apparenza, turbolento dietro la maschera di beffardo disincanto, celando esso una complessità priva di quelle fratture che avevano squarciato in tempo l'arte della Morte in Giugno: era l'opera della maturità e di fatto veniva avviata una nuova e sorprendente stagione artistica (sorta di seconda vita) che del passato ereditava le ossessioni, filtrandole attraverso una nuova consapevolezza e l'autorevolezza di un nuovo e più stabile equilibrio.

Lo sguardo di Pearce, tuttavia, per quanto rivestito di una impenetrabile corazza di ferma e sicura rassegnazione (una rassegnazione che si tingeva talvolta di sarcasmo e cinismo), rimaneva impregnato di un insopportabile senso di perdita che lo rendeva al tempo stesso sofferto e, in qualche maniera, ancora fortemente malinconico.

Sono i cocci, i frammenti di un mondo in piena decadenza che vengono ritratti nella loro lenta ed inesorabile caduta. Recita la title-track:

"Quando la vita non è altro che delusione,
E il "nulla" è divertente,
Quella caccia selvaggia per la solitudine
E' una vita senza Dio,
E' una fine senza amore,
Senz'anima oggi
E senz'anima domani,
Lottiamo per la gioia,
Oh lottiamo per la gioia,
Di cui la vita è ossessionata,
I suoi ricordi,
La sua insensatezza,
Desiderare di essere raccolti, frantumati e salvati,
Un pensiero per la vita,
Un pensiero per la notte,
Ma, cosa succede quando i simboli vanno in frantumi?
E chissà cosa succede ai cuori?"

Parole, sentenze e quesiti devastanti lanciati in chiusura di un'opera che investiga, si interroga su quali potrebbero essere le possibilità di felicità in un mondo che si avvia verso il vuoto, verso l'aridità e la mancanza di valori. Un viaggio che ha come esito la solitudine estrema di chi detiene verità annichilenti, condotto portando avanti con coerenza e ferrea determinazione la propria intransigenza nella ricerca di una purezza perduta; un viaggio che era partito con un brano che si intitolava "Death is the Martyr of Beauty" ("La Morte è la Martire della Bellezza", con un testo che si schiudeva con versi di questo tenore: "Ubriaco del nettare della sottomissione, non sento più nulla/ più che l'esistenza, sento una solitudine da cui non si può evadere/ nel narcisismo del nostro nascondiglio siamo perduti/ Più vasto della notte è il mio orgoglio, la mia minaccia, la mia determinazione/ questo è oltre ogni cosa, ciò che mi è più caro, tutto questo è oltre/ è questo l'esorcismo finale? Di un'ossessione nell'ossessione?"), andando a ribadire quel Culto della Morte che è da sempre presente nella visione artistica dei Death in June (l'estetica della morte, la morte visto come gesto nobile se la vita deve essere una bruttura senza speranza - ricordiamo che una figura centrale nella poetica pearciana è proprio Yukio Mishima, che il 25 novembre 1970 si toglieva la vita tramite seppuku, il suicidio rituale dei Samurai, come segno di protesta contro il processo di occidentalizzazione del Giappone, tradito nella tradizione e nello spirito).

Concetto ribadito dal fatto che quattro brani su dodici si ispirano a cori del Tempio del Popolo, setta religiosa con connotazioni socialiste che conobbe nel 18 novembre del 1978 il tragico epilogo di un suicidio-omicidio collettivo (la morte di 918 adepti, fra cui 219 bambini). Caratteristica dei Death in June della maturità sarà infatti il forte contrasto fra testi sempre più estremi (si veda l'irriverente blasfemia di "He's Disabled", riferito a Dio...) e i toni sempre più pacati della veste musicale.

Lasciatesi alle spalle le asperità industriali del passato, l'arte della Morte in Giugno preferirà modellarsi intorno allo standard della ballata folk, guardando principalmente alla tradizione inglese e a "cantautori apocalittici" quali Leonard Cohen e Scott Walker. Se già di per sé l'approccio di Pearce era volto all'essenziale, con questo lavoro, che si compone di sole ballate, diviene, nella forma, ancora più semplice e minimale. Una chitarra acustica ed un autorevole e fermo canto tenorile compongono l'ossatura delle nuove creazioni della Morte in Giugno. I suoni questa volta sono puliti e cristallini, come se il percorso di purificazione avesse coinvolto anche la mano dietro il mixer. Avvolgenti accordi di tastiera conferiscono ulteriore profondità al sound, a sua volta arricchito dai ricami delle percussioni a mano, da qualche spunto elettronico, da qualche lieve contaminazione rumoristica (eredità del passato industriale), dagli sporadici volteggi di una tromba sorniona, dall’ipnotico suono dello xilofono.

In due episodi giunge in soccorso l'irrequieto recitato dell'amico David Tibet dei Current 93: nella superba "Daedalus Rising", Current 93 allo stato puro, e in " This is not Paradise", impreziosita da versi in francese e da soffuse atmosfere oniriche. Ma tutta l'opera è come sospesa fra sogno e realtà, in un clima irrisolto ed irreale in cui la compostezza, la calma di Pearce entra in contrasto con “scenografie” confuse, immateriali, rarefatte, come nelle splendide "Because of Him" e "The Golden Wedding of Sorrow", o scenari avviluppati in sognanti tastiere come accade in "The Giddy Edge of Light".

Questi e i restanti brani, sebbene marchiati dalla monolitica ed uniforme voce di Pearce e "cucinati" con gli stessi ingredienti, si differenziano l'uno dall'altro in un complesso gioco di sfumature e divengono, ciascuno nel suo piccolo, memorabili. "The Mourner’s Bench", che ribadisce il tema della impotente contemplazione, viene corredata di cori oscuri e svolazzi di tromba; "Little Black Angel" è un vivace ed incalzante brano folk destinato a divenire un classico tutt'oggi riproposto immancabilmente dal vivo; la beffarda "Ku Ku Ku", gioiellino di nemmeno due minuti, si fregia di un bel giro di xilofono e dei sussurri spettrali di Tibet.

I Death in June, prima di una inesorabile decadenza artistica che investirà gli ultimi tre lustri della loro carriera, avrebbero saputo mettere a segno ancora diversi colpi vincenti. Con il successivo "Rose Clouds of Holocaust" (1995) la formula rimarrà inalterata (a proposito, se volete capire cos'è il folk apocalittico in tre minuti andatevi ad ascoltare la title-track), mentre con l'accoppiata di lavori composti a quattro mani con Albin Julius dei Der Blutharsch, ossia "Take Care and Control" (1998) e l'Ep "Operation: Hummingbird" (2000), la Morte in Giugno abbandonerà nuovamente la veste folk per virare verso un magniloquente industrial marziale di pregevole fattura.

Ma è nei quarantasei minuti di "But, What Ends When the Symbols Shatter?" che Douglas Pearce riscrisse il folk apocalittico, dando alla luce un'opera epocale che sarebbe stata presto emulata da molti ed elevata a modello universale per l'intero genere.

Discografia essenziale:

“The Guilty Have No Pride” (1983)
“Burial” (1984)
“Nada!” (1985)
“The World That Summer” (1986)
“Brown Book” (1987)
“The Wall of Sacrifice” (1989)
“But, What Ends When the Symbols Shatter?” (1992)
“Rose Clouds of Holocaust” (1995)
“Take Care and Control” (1998)
“Operation: Hummingbird” (2000)