"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

27 ago 2016

DIECI ALBUM (PIU' UNO) PER CAPIRE IL FOLK APOCALITTICO: :OF THE WAND & THE MOON:, ":EMPTINESS:EMPTINESS:EMPTINESS:"




Settima puntata: :Of The Wand & The Moon:

1994, 2001: avevamo chiuso la prima parte della nostra rassegna (quella dedicata ai "classici") con lo splendido "Beauty Reaps the Blood of Solitude" dei Nature And Organisation, rilasciato nel 1994. Ci riaffacciamo adesso sul panorama del folk apocalittico compiendo un salto temporale di ben sette anni per parlare di ":Emptiness:Emptiness:Emptiness:" degli :Of The Wand & The Moon:, opera targata 2001. Che non sia successo nulla nel resto della decade novantiana?

Niente affatto! La seconda metà degli anni novanta è stata foriera di grandi opere per il folk apocalittico. I Death in June trarranno forza ed ispirazione facendosi contaminare dall'industrial marziale dei Der Blutharsch di Albin Julius, discepolone "ben dotato" con il quale Douglas Pearce stringerà un "patto d'acciaio": il risultato saranno lavori superlativi come "Take Care and Control" e "Operation: Hummingbird".

I Current 93 inanelleranno una serie impressionante di capolavori e completeranno in bellezza la decade con gli umori intimi e le forme minimali di lavori tanto belli quanto ermetici come "Soft Black Stars" e "Sleep Has His House".

I Sol Invictus, infine, raffineranno la loro formula, incorporando nel loro corpus sonoro elementi neoclassici, arrangiando i loro brani in modo sempre più sontuoso ed elegante, raggiungendo così vette qualitativamente notevoli (sia per quanto riguarda la forma che la sostanza) quali "The Blade" e "In a Garden Green". E questo grazie ad un ensemble di musicisti superlativi sempre più affiatati che sapranno ampliare la visione artistica di Tony Wakeford.

Sarà piuttosto con l'inizio del nuovo millennio che si sentirà il bisogno di un ricambio generazionale: la vena creativa di David Pearce si inaridirà in modo preoccupante (e la prova sono gli scialbi lavoro degli ultimi quindici anni), la conversione al cristianesimo di David Tibet porterà ad un periodo di incertezze, Tony Wakeford cadrà nella trappola del manierismo.

In soccorso giungeranno giovani principalmente provenienti dal Nord Europa che, attirati dai richiami alle culture pagane fiorite proprie nelle aree nord-europee (richiami che da sempre scaturiscono dalle viscere del genere, in particolare da parte di entità quali Sol Invictus e Fire + Ice), sapranno imprimere linfa vitale ad un genere che rischiava seriamente di rimanere arenato nelle secche della sclerosi creativa. Fra queste nuove "band" vi sono gli :Of The Wand & The Moon:, dalla Danimarca.

Ho virgolettato la parola band perché anche in questo caso abbiamo a che fare con un solo individuo, come spesso capita in questi ambienti. L'uomo dietro al progetto è Kim Larsen, il quale fra l'altro proveniva da una band gothic-doom, i Saturnus (dove suonava la chitarra), a dimostrazione dei forti legami che sussistono fra neo-folk e le frange più oscure del metal.

Egli debuttava con la nuova "ragione sociale" nel 1999 con l'ottimo "Nighttime Nightryme", bell'esempio di neo-folk intimo, notturno ed ancorato alla missione di riscoperta e rivalutazione delle culture della tradizione folcloristica del Nord Europa. Ancora una volta il punto di riferimento erano i Death in June, ma la voce appena sussurrata di Larsen, le melodie epiche della sua chitarra, i richiami ad un passato ancestrale fatto di rune e riti pagani, rendeva la sua proposta estremamente intrigante.

Con il secondo album ":Emptiness:Emptiness:Emptiness:", edito nel 2001, farà meglio, confezionando un lavoro ancora più maturo, curato nei particolari, ammaliante nei suoi lenti movimenti e nei suoni avvolgenti. Larsen non inventa nulla, ma la sua musica "riluce" di un magnetismo, di un potere evocativo che trae energia direttamente dalla grande passione che il Nostro riversa in essa.

":Emptiness:Emptiness:Emptiness:" nei suoi quasi settanta minuti di durata non è di facile ascolto, anche perché fra le scarne ed oscure ballate in classico stile Death in June si insidiano incursioni industrial-ambient che dilatano a dismisura l'opera: basti pensare a "Algir Naudi Wunjo" e "Reficul" (rispettivamente dodici e diciassette minuti!) che offuscano la "vista" all'ascoltatore conducendolo in una dimensione di orchestrazioni sfocate e lente percussioni dal passo marziale, a metà strada fra l'antico rituale di guerra e foschi scenari post-apocalittici (in questo caso i riferimenti sono i primi Current 93 e il Boyd Rice "parlante").

Per questo motivo l'impatto iniziale non può essere dei migliori, e io stesso ho impiegato del tempo per addentrarmi nell'oscuro mondo di :Of The Wand & The Moon:. Ma una volta entrati sarà difficile uscirne, come ipnotizzati dal quella voce dolente, da quell'arpeggiare nell'oscurità, da quelle pennellate di synth che sembrano avvolgere i brani in un "involucro metafisico".

L'opener "Lost in Emptiness" è il manifesto programmatico di tutto questo: una ballata crepuscolare che ricorda da vicino quanto proposto dalla Morte in Giugno in "Rose Clouds of Holocaust". Il fantasma di quell'opera così seminale per l'intero genere aleggerà per tutto il platter ed in particolare verrà evocato dalla doppietta "Silver Rain"-"Al Ganda", la prima soffusa ed onirica, la seconda imponente ed incalzante (arricchita da un bel flauto svolazzante), che ricorda decisamente l'uno-due di "The Accidental Proté" e "Rose Clouds of Holocaust" (la canzone). Eppure il plagio non si affaccia mai in maniera fastidiosa, in quanto l'universo artistico di Larsen è molto diverso da quello di Douglas Pearce: i testi sono in inglese e in norreno e veicolano un messaggio di sconforto innanzi al Vuoto, valoriale e spirituale, che caratterizza i nostri tempi.

:Vuoto:Vuoto:Vuoto: è la traduzione letterale del titolo dell'album, che appunto indugia su questa sensazione di solitudine e di amarezza vissuta da Larsen in un mondo inconsistente, vacuo, in cui egli non si riconosce. Tutto volge alla descrizione del vuoto: le folk-song acustiche sono arrangiate in modo minimale (ossessivi accordi di chitarra acustica, lisergiche tastiere ed arpeggi di chitarra elettrica ad evidenziare i passaggi più significativi, sporadiche percussioni, flauto ed archi all'occorrenza). E lo stesso, forse in maniera più incisiva, vale per le tracce ambientali, nelle quali ci si abbandona a suoni confusi che richiamano dimensioni oniriche, falò appiccati in boschi di notte. Capiterà di udire il crepitio del fuoco, lo stridere di lame che vengono affilate, il solenne incrocio di violino e violoncello: in questi episodi la voce di Larsen si fa sofferta e rassegnata recitazione, a sottolineare quella sensazione di "spossatezza esistenziale" che scorre attraverso le arterie dell'opera e che cozza piacevolmente con l'impeto epico che le fa da corazza.

Pur non stravolgendo gli schemi tipici del genere, ma anzi andandoli a ribadire in maniera idealtipica (fissando quei cliché in una rappresentazione perfetta e pura di quello che è che dovrebbe essere il genere), Larsen scrive una bella pagina di folk apocalittico, intingendo la sua penna in un calamaio colmo di intime sensazioni e traboccante di un reale disagio nei confronti del vuoto che lo/ci circonda ("prodotto, composto e suonato sotto l'influenza dell'alcol e della misantropia", viene orgogliosamente dichiarato nelle note interne). Ma non senza uno sguardo rivolto a quello che non è e che dovrebbe essere:

:We all lie in the gutter but some of us are looking at the stars:

Discografia essenziale:

"Nighttime Nightryme" (1999)
":Emptiness:Emtiness:Emptiness:" (2001)
"Sonnenheim" (2005)
"The Lone Descent" (2011)