"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

18 ott 2017

DUNKERQUE, "DUNKIRK": ESTETICA DELLA GUERRA SECONDO CHRISTOPHER NOLAN E ULVER



Io sono uno di quelli che se gli spoileri il finale di un film può diventare molto cattivo. Eppure quando mi sono accomodato in sala e mi sono preparato a visionare "Dunkirk" (quello che per il sottoscritto era il film più atteso dell'anno), conoscevo la trama e sapevo benissimo come le vicende si sarebbero sviluppate e poi concluse. Chi è stato il bastardo che mi ha svelato il finale del film?

Al di là che si sta parlando di un fatto storico assai noto (la battaglia, anzi l’evacuazione di Dunkerque), ci avevano pensato gli Ulver a rinfrescarmi la memoria: di fatto il brano "Angelus Novus" (dall'ultimo album "The Assassination of Julius Ceasar"), che proprio a questa vicenda si ispirava, mi impose in tempi non sospetti di approfondire l'argomento. Ma se gli spoilatori sono Kristoffer Rygg e soci, per una volta possiamo essere indulgenti...

Una strana coincidenza quella che vede gli Ulver trattare questa vicenda storica pochi mesi prima che nelle sale cinematografiche quella stessa vicenda venisse raccontata da Christopher Nolan in quello che da molti sarebbe stato accolto come l'evento cinematografico dell'anno (insieme ovviamente a "Blade Runner 2049"). L'idea che mi feci all'epoca (l'album usciva ad aprile) era che i norvegesi avessero scelto un evento bellico atipico e dai forti risvolti simbolici, in perfetta armonia con un concept che si addentrava impietosamente nel labirinto delle contraddizioni cicliche della storia.

"Tragedies repeat themselves in a perfect circle"...

La storia di Dunkerque porta con sé una ambiguità di fondo: una sconfitta annunciata per gli Alleati (rovinosamente costretti alla ritirata dalle armate del Terzo Reich che avevano conquistato praticamente tutta la Francia) che si rivelò, a conti fatti, una vittoria morale. I contingenti in fuga infatti riuscirono in gran parte a mettersi in salvo via mare, anche grazie al generoso supporto di civili inglesi che con le loro barche si preoccuperanno di riportare i compatrioti dall'altra parte della Manica. Quella che per i "fuggitivi" doveva essere con quasi certezza una disfatta, si trasformò per loro in un importante (dal punto psicologico) momento di riscatto da cui prese piede quella grande offensiva che avrebbe portato a ribaltare le sorti del conflitto.

Questa ambiguità era il senso che affibbiavo alla scelta degli Ulver, ma con l'uscita del film di Nolan, visto che non credo alle congiunture astrali, mi è venuto in malafede da pensare alla malafede di Rygg, che certo ai giochi di prestigio non è nuovo. Ho scoperto così che il film era stato annunciato da tempo (già i primi trailer circolavano nel dicembre 2016) e sicuramemte Rygg ne ha approfittato per confezionare l'ennesimo intelligente incastro "spazio-temporale" di cui è straboccante l'ultimo lavoro dei Lupi. Il fatto che "Nemoralia" tiri in ballo Lady Diana proprio nell'anno in cui si è andati a celebrare il ventesimo anniversario della sua morte andrebbe ad avvalorare questa mia tesi.

Torniamo a noi. C'è chi sostiene che “Dunkirk” non sia un film di guerra, che Nolan abbia scelto il contesto di un evento bellico per esprimere quelle che sono le sue ossessioni come autore (una su tutte: il tempo). Io sono invece della scuola di pensiero secondo cui il film sia veramente un film di guerra, benché l'approccio al tema sia sostanzialmente diverso da come siamo abituati a vederlo trattare davanti alla cinepresa. Per certi aspetti potremmo dire che "Dunkirk" rivoluziona il cinema bellico, anche se poi è difficile prevedere quali saranno le conseguenze, visto che il modo di fare cinema di Nolan (virtuoso come pochi) non è facilmente replicabile.

Anzitutto non c'è quella sensazione di reverenza, quel guardare dal basso in alto ciò che accade sul palcoscenico della guerra; anzi, le vicende sono trattate con fin troppa disinvoltura, senza enfasi. Non abbiamo una storia principale e non abbiamo un vero protagonista (l'impianto del film è corale), non abbiamo scene madri (solo una frenetica lotta contro il tempo), né gesta eroiche (al massimo qualche scelta etica che, sempre affogata nella foga di mettersi in salvo o di mettere in salvo, non imbastisce una vera e propria psicologia del "combattente traumatizzato" o dell'"esterrefatto testimone"). Non c'è sangue (a guardar bene non vi è nemmeno un vero e proprio scontro fra fazioni opposte, salvo qualche combattimento aereo) e non vi sono nemici visibili (mai inquadrati, tenuti accuratamente fuori dal campo visivo e smaterializzati come minaccia invisibile e incombente, tutt'al più tratteggiati come ombre).

Tutto questo ed altro fanno di "Dunkirk" un anomalo film di guerra, questione oziosa, se vogliamo, innanzi a quello che probabilmente è ad oggi il capolavoro formale di Nolan: opera impeccabile nell'impianto, rigorosa nello sviluppo, prodigiosa da un punto di vista tecnico e lodevole nel saper conservare gli intenti autoriali, senza cedere alle lusinghe dell'"azione per l'azione" o del cinema di puro intrattenimento.

Che visione della guerra ci consegna "Dunkirk"? Una guerra sicuramente piegata alle esigenze espressive di Nolan; una guerra che, proprio perché implacabile, asfissiante, letale in ogni suo frangente, finisce per apparirci coreografata, elegantemente incalzata da una colonna sonora straordinaria che si incastona perfettamente nel susseguirsi dalle scene. E dunque, proprio per permettere che le riprese fluiscano senza ostacoli, gli accadimenti caotici ed imprevedibili della guerra vengono ammaestrati, disposti "ordinatamente" in una sorta di sinfonia che si muove attraverso il meccanismo della tensione e del rilascio. Le bombe cascano con perfetto tempismo, uccidendo e graziando a seconda di quelli che sono i fini narrativi; il livello dell'acqua che sale sembra arrivare proprio al punto massimo di pericolosità prima che si metta in salvo chi deve arrivare alla fine del film; le navi affondano con grazia, posizionandosi in inclinazioni che garantiscono il massimo della spettacolarità, come del resto accade alle pieghe prese dagli aeroplani in cielo e così via.

Una fotografia bellissima ed una ricostruzione maniacale dei dettagli d'epoca alimentano questa impressione di "guerra patinata, laccata", che non è un difetto, ma una diretta conseguenza della scelta consapevole di spostare il focus dall'individuo all'azione collettiva in relazione allo spazio ed al tempo (ben tre i piani temporali che si intrecciano in classico stile nolaniano per complicare ulteriormente la visione). Un insieme di cose che tuttavia collide, stride con la natura irrazionale e sgraziata della guerra (ma di questo ce ne renderemo conto a mente fredda con il riaccendersi delle luci in sala, perché durante la proiezione sarà impossibile abbandonarsi a riflessioni).

A guardar bene, la guerra raccontata dagli Ulver dà la medesima sensazione di carneficina senza sangue, di tragedia che si sviluppa a passo di danza.

Da sempre la guerra è, per ovvi motivi, un tema ampiamente trattato nel metal, che di essa ne va ad esplorare principalmente i caratteri di violenza e di desolazione sulla psiche di chi combatte. Esempi eclatanti di queste due approcci ce li offrono gli Slayer (e come potevano mancare?) con "Mandatory Suicide" (qui Araya e soci ci parlavano del Vietnam) e il buon Lemmy (che passa persino come esperto di storia!) con la struggente ballata "1916" (Prima Guerra Mondiale, ovviamente).

Gli Ulver sicuramente non sono interessati alla violenza, visto che da parecchi anni la loro veste non è più quella del metal. Ma non sono nemmeno interessati allo scavo psicologico, perché la loro arte, radicata nel retroterra culturale dell'avanguardia, non si può permettere nemmeno di scivolare nell'ovvio, nella prevedibilità, nella retorica. Come Nolan, anzitutto, Rygg e soci ci restituiscono una visione corale della guerra, dove l'individuo scompare in un tragico anonimato. Ma a contrario dell'inglese Nolan, che finisce per pagare dazio al sentimentalismo patriottico, gli Ulver ci offrono una lettura cinica della storia, perché non sono inglesi ma norvegesi, e dunque per loro Dunkerque non è un "miracolo" (come lo definisce Nolan all'inizio del film), ma uno dei tanti anelli di cui si compone l"infinita" (come la “endless beach” evocata nel testo) catena di sangue che costituisce la spina dorsale della Storia.

Essi dunque non ci restituiscono Dunkerque come un singolo episodio, ma come una disfatta per l'umanità intera. Un cinismo, quello degli Ulver, non estraneo alla sofferenza, che è una sofferenza che potremmo definire "intellettuale", in quanto la guerra non solo uccide, ma contraddice la ragione. Emblematiche a tal riguardo, le parole "First the dead, then the living". Parole che si scrollano di dosso la retorica patriottica che pervade ancora il film di Nolan (la generosità, il coraggio, lo spirito di abnegazione dei civili impegnati nelle rischiose operazioni di soccorso; la lettura del discorso di Churchill), per rimettere in primo piano il tema centrale nella guerra: la Morte. Non degli uomini, ma dell'Uomo: vittima sacrificale di una Storia che lo vede più come pedina che come protagonista. Prima i morti, appunto, perché all'occorrenza possono essere più utili dei vivi.

I norvegesi cuciono intorno a questa concezione una elegante veste synth-pop che predilige i toni elegiaci ed una solennità che sa mettere insieme, come d'incanto, David Sylvian e Tangerine Dream. Sì, probabilmente è il brano più intenso del platter, ma anche un modo beffardo, sicuramente atipico, di mettere in scena la guerra. Musicalmente siamo agli antipodi della corsa frenetica dell'elettronica pulsante ed irrequieta ammaestrata da quel genio delle colonne sonore che risponde al nome di Hans Zimmer.

Eppure, durante i titoli di coda di "Dunkirk", "Angelus Novus" ci sarebbe potuta anche stare....